Dal Mondo
18:36pm18 Gennaio 2013 | mise à jour le: 18 Gennaio 2013 à 18:36pmReading time: 7 minutes

L’amara verità dell’intervento in Mali

www.affarinternazionali.it – L’intervento francese in Mali dell’11 gennaio è destinato a rappresentare sotto molti punti di vista il disvelamento (“alétheia” nella sua origine greca) definitivo di una serie di falsi miti: sulla natura della cooperazione internazionale nella lotta contro il terrorismo e per la risoluzione delle crisi intra-statuali, sulla possibile coesione tra gli stati membri dell’Unione europea in materia di politica estera, sul partenariato euro-africano nel settore della pace e della sicurezza e, infine, sul ruolo che possono giocare le organizzazioni regionali e sub-regionali africane.

La Francia ha deciso di agire unilateralmente con un attacco aereo per contrastare l’avanzata dei gruppi islamisti ribelli, in primo luogo di Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim), nel nord del paese. Le motivazioni che hanno spinto il governo di Hollande a forzare la mano e intervenire militarmente in Mali sembrano in continuità con quelle che avevano animato la politica africana di Sarkozy e ricalcare le orme dell’azione internazionale in Libia del 2011. Legami neo-coloniali mai recisi – da relazioni economiche privilegiate al sostegno militare garantito ai governi in carica – con la cosiddetta “Françafrique” (che comprende gli stati africani ex colonie francesi e francofoni), uniti alla necessità di proteggere i circa 2.500 cittadini francesi presenti sul territorio, hanno giocato un ruolo preminente. In realtà, la crisi maliana era ben nota da tempo ai decisori politici internazionali e, soprattutto dietro impulso francese, era entrata nell’agenda delle principali organizzazioni già dallo scorso anno. Non soltanto erano state evidenziate le possibili conseguenze in termini di destabilizzazione nella regione occidentale africana, ma anche l’impatto sulla sicurezza europea ed internazionale collegato al rafforzamento dell’attività terroristica, della criminalità organizzata e delle migrazioni di sfollati.

Sia il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che l’Unione europea avevano innalzato il livello di guardia dopo le ribellioni scoppiate nel nord del paese nel gennaio del 2012 e il successivo colpo di stato del marzo 2012, che ha destituito l’allora Presidente Amadou Toumani Touré e portato alla formazione di un governo di transizione guidato da Dioncounda Traoré.

Con due risoluzioni del Consiglio di sicurezza (2071 del 12 ottobre 2012 e 2085 del 20 dicembre 2012), gli stati membri dell’Onu si sono impegnati a rispondere alla richiesta del governo maliano per il dispiegamento di una forza militare internazionale e ad offrire sostegno alle attività di pianificazione dell’Unione africana e della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas). Ma il Consiglio di sicurezza non ha fatto ricorso alle sue prerogative, previste nel Capo VII della Carta delle Nazioni Unite, ed ha consegnato la risposta internazionale ad un intervento unilaterale, screditando ancora una volta il suo ruolo di perno del sistema di sicurezza collettiva a livello globale.

 

Divisioni

 

Come spesso è accaduto in passato, nell’ambito dell’Unione europea l’attenzione si è focalizzata sulle cause della crisi, individuate nella fragilità del governo in carica, nella cattiva gestione delle rivendicazioni di autonomia delle popolazioni Tuareg nel nord del paese e nell’instabilità regionale legata al terrorismo e alla criminalità organizzata. L’Ue ha risposto attraverso il ricorso ad una serie di strumenti che potrebbero rivelarsi utili nel medio periodo, ma che senz’altro non hanno fermato l’escalation della crisi in atto. In particolare, l’Ue ha continuato a fornire assistenza umanitaria e allo sviluppo, concentrandosi sul sostegno alla governance locale e alla ripresa economica delle regioni a nord del paese e del Delta del Niger, mettendo in cantiere una serie di azioni previste nell’ambito della Strategia per la Sicurezza e lo Sviluppo nel Sahel, adottata dal Consiglio dell’Ue nel novembre 2011.

Le numerose discussioni condotte nel Consiglio affari esteri e nel Comitato politico e di sicurezza nel corso del 2012 per l’avvio di una missione militare nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune non hanno portato a passi concreti. Le ripetute richieste francesi di dispiegare una missione militare si sono scontrate con l’aperta resistenza di alcuni stati Ue, a partire dalla Germania.

All’indomani dell’intervento francese, l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, ha convocato una riunione straordinaria dei ministri degli esteri Ue per accelerare il lancio di una missione di addestramento dell’esercito maliano e per azioni di sostegno all’intervento militare africano, autorizzato dalle Nazioni Unite e in fase di pianificazione da parte dell’Ecowas.

La missione europea dovrebbe essere rafforzata rispetto alle previsioni iniziali, con l’impiego di circa 500 addestratori militari, e dovrebbe essere inviata sul terreno intorno alla metà di febbraio, con un mandato iniziale di 15 mesi e con un bilancio di circa 12 milioni di euro.

Se anche il Consiglio affari esteri riuscisse a raggiungere una decisione di questo tipo, il giudizio sulla tempistica, sull’ampiezza e sul mandato della missione dell’Ue non potrebbe che essere negativo. Si tratta di una risposta tardiva, che giunge dopo mesi di discussioni poco fruttuose nei principali consessi decisionali dell’Unione, sconfessando ancora una volta gli sforzi europei per porsi come attore internazionale credibile nella gestione internazionale delle crisi. È inoltre una risposta inadeguata, perché si propone di intervenire con un’azione, peraltro limitata dal punto di vista numerico, di formazione delle truppe maliane quando esse sono già impegnate in un conflitto aperto con i ribelli del nord.

L’Ue dovrebbe inoltre fornire supporto logistico e finanziario per la missione Afisma, che prevede il dispiegamento di circa 3.300 militari forniti da Nigeria, Benin, Ghana, Niger, Senegal, Burkina Faso e Togo. Anche in questo caso, prevale il senso di impotenza e di promesse mancate per la costruzione di forze africane efficienti per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti.

L’Unione africana e soprattutto l’Ecowas, che è considerata l’organizzazione sub-regionale dell’Africa più attrezzata dal punto di vista operativo ad intervenire in situazioni di conflitto, non sono state in grado di garantire un’azione autonoma nel paese. L’intervento africano, programmato da diversi mesi e mai concretizzatosi, è rimasto ostaggio delle reticenze della comunità internazionale a fornire il sostegno richiesto, rivelando l’incapacità ancora non colmata di queste istituzioni di fornire “risposte africane ai problemi africani”.

 

Dopo tale doloroso disvelamento, resta da chiedersi cosa si può ancora fare. In primo luogo, il Consiglio di sicurezza può cercare di recuperare il suo ruolo di garante della pace e della sicurezza internazionali attraverso un appoggio deciso alla missione africana in Mali, al rafforzamento dell’azione umanitaria a sollievo della popolazione locale e a un’azione di mediazione tra il governo maliano e gli insorti nel nord del paese. Gli Stati Uniti hanno già offerto sostegno all’azione francese, insieme alla Gran Bretagna. Un supporto seppure limitato verrà anche da Germania, Danimarca, Italia e Belgio. L’Unione europea potrebbe operare come una “clearing house” per favorire il coordinamento tra le capacità messe a disposizione dagli stati membri per il sostegno ad un’azione multilaterale, sia svolgere un ruolo di “leadership from behind” rispetto alla missione che sarà guidata dall’Ecowas, sia intervenire direttamente attraverso una missione di formazione delle forze maliane con un mandato rivisto rispetto a quanto prospettato prima dell’intervento francese.

In ogni caso, l’azione francese in Mali ha definitivamente squarciato il velo della retorica multilaterale e del concetto di “ownership” nella stabilizzazione del continente africano e nella lotta al terrorismo. Rendendo quanto mai urgente una presa di posizione forte delle istituzioni internazionali per restituire legittimità ed efficacia al sistema di governo globale di sicurezza.

 

Nicoletta Pirozzi, responsabile di ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali di Roma 

 

More Like This