Incontro con Andrea Paolella, giovane ricercatore di nuovi materiali per Hydro-Québec con la passione per la fotografia
Foto cortesia
Da Reggio Emilia a Montreal, passando per Bologna e Genova. Dalla chimica alla fotografia. Dalla nanotecnologie alla ricerca di nuovi materiali. Il singolare percorso di Andrea, 32 anni, alla ricerca della batteria … perfetta!
Andrea, cosa ti ha portato a Montreal?
«Io mi sono laureato in chimica a Bologna e poi sono andato a Genova, all’Istituto Italiano di Tecnologia, per fare il dottorato in Nanotecnologia, nanomateriali ed elettrochimica che ho terminato nel 2013. Durante una conferenza a Toronto ho conosciuto il professor George Demopulos, dall’Università McGill, che mi ha invitato a venire qui a Montreal per fare il postdottorato in materiali per le batterie che è durato tre anni. Nel novembre scorso Hydro-Québec mi ha assunto come ricercatore per lo sviluppo di nuovi materiali nel Dipartimento di stoccaggio e conversione dell’energia, sotto la direzione di Karim Zaghib, presso l’Institut de Recherche Énergie Québec (IREQ), la cui sede è a Varennes e in cui lavorano circa 300 persone tra ricercatori e tecnici. In realtà la borsa di studio che ho ricevuto dalla MCGill per fare il postdottorato era in partenariato proprio con Hydro-Québec per cui ho frequentato, per tre anni, il loro laboratorio fino a diventare ricercatore a tutti gli effetti, inziando a lavorare su progetti non più accademici ma di vera e propria ricerca industriale».
Cos’è la nanotecnologia, di cosa ti occupi in realtà?
«Bisogna chiedersi: cosa vuol dire lavorare con le nanotecnologie? Vuol dire sfruttare una capacità che ha la materia quando la si miniaturizza, di tirare fuori delle proprietà che la materia stessa, allo stato massivo, non aveva o aveva in modo limitato. Vuol dire aumentare, di moltissimo, in modo esponenziale, l’area superficiale di una particella in modo da renderla molto reattiva.
La nanotecnologia oggi si applica a vari campi come, ad esempio, la diagnostica, la fotonica e le batterie, quelle che utilizziamo tutti i giorni per far funzionare i nostri apparecchi elettronici, le automobili o altro. Applicandola ad alcune componenti delle batterie si sfrutta la capacità della materia di interagire con gli ioni di litio, componente essenziale della batteria, nel modo più efficace possibile.
Quando si miniaturizza, quindi si fanno le cose molto, molto, ma molto piccole, si riescono ad ottimizzare le proprietà stesse di un determinato materiale che magari allo stato normale, non potevano funzionare».
Facciamo un esempio?
«Prendiamo uno dei materiali con cui lavoro: il litio-ferro-fosfato, materiale che da ormai 20 anni Hydro-Québec vende sotto licenza in tutto il mondo, che si utilizza nelle batterie al litio, le comuni pile; quando questo materiale lo si riduce di dimensioni, attraverso vari procedimenti di sintesi in laboratorio, inizia ad essere molto più efficiente. Cerco di formare dei nanocristalli di questa materia, di dimensioni che possono andare dai 10 nanometri, cioè dai dieci miliardesimi di metro, al micron, un milionesimo di metro. Cerco, quindi, di ottimizzare il più possibile la densità di energia di una batteria in modo che essa riesca a dare, a parità di peso, più energia. Insomma delle pile sempre più efficaci, di nuova generazione, che in prospettiva possano dare più autonomia ad un’automobile o a un cellulare. Sono delle ricerche e delle scoperte che possono avere sviluppi commerciali e quindi importanti risvolti economici.
Che qualità ci vogliono per fare lo “scienziato?”
«Intanto la tecnologia richiede una grande pazienza. Poi ci vuole creatività, una grande curiosità e un metodo di lavoro altrimenti rischi di perdere per strada le idee come è successo a tante persone che conosco che non ne prendono mai nota e poi se le dimenticano! Bisogna essere “riproducibili” essere capaci cioè di rifare un determinato percorso scientifico e ottenere lo stesso risultato più volte. Poi, naturalmente, ci vuole la passione per quello che si fa. Lo sforzo creativo di uno scienziato non è molto diverso da quello di un artista perché devi immaginare e inventare una cosa che non c’è.
Nel passare da una vecchia ad una nuova tecnologia ci sono tutta una serie di problemi da risolvere e non solo bisogna immaginare qualcosa che non c’è ma allo stesso tempo, per arrivarci, bisogna risolvere i problemi che già ci sono. A tale proposito mi viene in mente lo scrittore Primo Levi che diceva: “Io nella materia vedo la poesia”. Penso che per affrontare le sfide tecnologiche bisogna prima ricercare la “poesia”, la “bellezza della materia”, altrimenti è una sfida persa».
Come mai l’Italia si è lasciato sfuggire un “cervello” come il tuo?
«Le compagnie nel mondo investono miliardi di dollari nella ricerca, nelle nuove tecnologie, e l’Italia, in questo settore specifico, il treno lo ha già perso. Credo che al momento abbia problemi più impellenti da risolvere e forse sarebbe meglio mettere in sesto e far funzionare quello che c’è già, il CNR, ad esempio, o gli istituti di ricerca. Forse quello che potrebbe fare è cercare di importare gli imput, le idee dei ricercatori italiani all’estero, vedere e capire come si fa ricerca all’estero e magari coinvolgere di più il settore privato. Onestamente sono molto contento di essere venuto qui a Montreal. Io non sono scappato, ho solo trovato le condizioni giuste per fare al meglio ciò che amo».
Una passione chiamata fotografia
Oltre ad essere un brillante ricercatore Andrea Paolella è anche un ottimo fotografo. Al suo attivo ci sono diversi libri e diverse collaborazioni importanti. Due grandi passioni, la scienza e la fotografia, che coltiva e che porta avanti con uguale determinazione. La sua non è una fotografia banale, è una fotografia di impegno sociale, di riflessione, di denuncia, di scoperta.
«Per me la fotografia – afferma Andrea – è un antistress. Ho iniziato a farla con Vasco Ascolini, un fotografo eccezionale, anche lui di Reggio Emilia, mentre studiavo all’università. Poi a Bologna ho fotografato le case coloniche in rovina, un tema per me cruciale: la fine della civiltà contadina in Emilia. Ho lavorato con il Comune di Reggio Emilia e con la CGIL per fare dei reportage sull’immigrazione, sul contributo dei migranti al processo produttivo dei prodotti tipici emiliani come il prosciutto, il parmigiano, il Lambrusco, ecc.. Tutta la filiera produttiva era ed è supportata dai migranti che in tal modo sono diventati parte integrante del nostro DNA». A tale proposito sono stati pubblicati due libri: “Senza Oriente Nessun Occidente” e “Questi qui”.
Poi ho collaborato con Paolo Bolognesi, presidente dell’ “Associazione 2 agosto 1980”, data che si riferisce alla strage della stazione di Bologna; ho fotografato la stazione e la sala d’aspetto 30 anni dopo». Ne è uscito un libro intitolato “La strage dei trent’anni”.
«Poi ho lavorato a vari altri progetti tra cui quello di fare dei ritratti dei più grandi registi italiani, da Bertolucci a Lizzani, da Francesco Rosi ai fratelli Taviani, che però è ancora inedito perché sono partito per Montreal e la mia carriera di fotografo ha subito un’interruzione! Ma di progetti ne ho in mente altri tra cui uno che riguarda proprio gli italiani di Montreal».
In attesa di sapere se da “grande” farà più lo scenziato che il fotografo o anche tutte e due le cose, Andrea ci saluta dicendo: «Sono contento di fare la ricerca scientifica perché mi dà grandi soddisfazioni. Io ci metto tanta passione; la ricerca a volte funziona, a volte no ma bisogna perseverare. Non è solo questione di stipendio, io voglio portare a casa dei risultati e cercare di essere utile!»
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