Italo e Julia Camerino raccontano
16 ottobre 1943, una data da non dimenticare
Enzo aveva solo 14 anni quando il 16 ottobre 1943 i nazisti bussarono alla porta di casa Camerino, a Roma, per dare vita al più grande rastrellamento di ebrei romani. Furono circa un migliaio ad essere deportati nei campi di concentramento. Di essi ne tornarono indietro soltanto 16 tra cui Enzo che poi nel 1957 emigrò con la sua famiglia a Montreal.
158.509. «Papà, cosa sono quei numeri sul braccio?» «Niente, sono numeri di telefono!».
Comincia così l’incontro con Italo e Julia Camerino che, in occasione della “Giornata della memoria e dell’Olocausto” (fissata al 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe russe liberarono il campo di concentramento di Auschwitz decretandone la fine), hanno raccontato, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Montreal, la tragica esperienza vissuta dal padre.
«Eravamo piccoli, non sapevamo nulla di quella storia perché lui non ne parlò mai fino ad una decina di anni fa.
Nostro padre – raccontano i figli – era una persona molto positiva. Non ha mai parlato male dei tedeschi, al massimo diceva loro qualche parolaccia quando vedeva dei film di guerra, ma non più di quello! Non era un tipo che raccontava spontaneamente le cose, ancora meno le cose “brutte”. Per lui di “brutto” c’era solo la fame. A casa nostra non potevamo avere il frigorifero vuoto. Ci diceva sempre: “Mangia, mangia!”. Amava molto stare a tavola in compagnia.
Quando quella mattina del 16 ottobre bussarono alla porta della casa in viale delle Milizie, mio padre e la sua famiglia pensavano che fosse un controllo da parte dei fascisti alla ricerca di armi o altre cose, invece c’erano gli SS tedeschi. Nostro padre voleva scappare ma il fratello Luciano, di due anni più grande, disse che sarebbe stato meglio rimanere insieme perché non voleva separarsi dai genitori.
“Pensavo – raccontava Enzo – che ci avrebbero portati in un campo di lavoro”. Invece furono avviati verso i vagoni del treno, destinazione Auschiwitz: i genitori, i due fratelli, la sorella più grande e uno zio».
Indietro, nel giugno 1945, tornarono solo Enzo e il fratello Luciano. Enzo fu rinchiuso ad Auschwitz, poi fu mandato a Birkenau, dove riuscì anche a farsi benvolere dai tedeschi perché aveva detto che aveva imparato a fare il barbiere, poi nella miniera di Jawischowitz a raccogliere il carbone a 400 metri di profondità ed infine a Buchenwald da dove, insieme al fratello, riuscì a fuggire per poi ritornare a Roma».
Come mai emigrò proprio a Montreal?
«La situazione in Italia era difficile e nostro padre cercava migliori opportunità di lavoro. Papà e mamma, Silvana Pontecorvo, che riuscì a salvarsi dalla retata del 1943 solo perché la sua famiglia, per puro caso, non era iscritta all’elenco della Sinagoga di Roma, elenco sul quale si basarono i tedeschi per organizzare il rastrellamento, si sposarono nel 1951. Veramente – spiega Italo che è nato a Roma nel 1952, ha tre figli e attualmente è commerciante di tessuti – dovevano andare a New York perché papà aveva dei cugini ma in quel momento l’emigrazione era chiusa e le alternative erano l’Australia, giudicata troppo lontana, e il Canada. Arrivammo ad Halifax e poi da lì in treno a Montreal. Era il 1957. Mio padre lavorò per la catena di ferramenta “Pascal” e poi, salvo una breve parentesi nel 1961 in cui ritornammo a Roma – mia madre soffriva di nostalgia – si mise in proprio e aprì un negozio di articoli per la casa nella zona di Parc Extension che gestì fino alla pensione».
Perché papà cominciò a parlare della sua tragica esperienza solo in tarda età?
«Dopo la morte di mamma – spiega Julia che invece è nata a Montreal, ha una figlia e lavora come impiegata per Air Canada all’aeroporto – papà si recava spesso a Roma e poiché da una discussione ne nasceva un’altra, piano piano è riemersa la sua storia fino ad interessare la Fondazione Museo della Shoah che faceva delle ricerche sui sopravvissuti dei campi di sterminio. Il suo direttore, Marcello Pezzetti, incontrò più volte mio padre e poi scrisse un libro proprio su quel tragico 16 ottobre del 1943. Da lì, a poco a poco a mio padre è venuta la voglia di raccontare tutto quello che gli era successo, e più parlava e più si ricordava i particolari della sua esperienza.
Anche una nostra cugina, maestra elementare, lo sollecitava spesso dicendogli che doveva andare nelle scuole a raccontare quello che gli era successo e così fece. Molti dettagli della sua prigionia, molti episodi che lui non ci aveva mai raccontato li abbiamo ascoltati per la prima volta proprio dai racconti che faceva in queste occasioni o durante le interviste con i giornalisti. Ma cercava di raccontare sempre con un filo di ironia e con molta umanità, come se invece che la deportazione avesse vissuto uan grande avventura. Rendeva tutto più leggero!»
Senza rancore
«Il suo obiettivo, dopo che cominciò a raccontare, era che gli studenti conoscessero quello che era veramente successo durante la Seconda guerra mondiale, che studiassero l’olocausto in modo da capire ed evitare che fatti del genere possano ripetersi. Lo disse anche a Papa Francesco e all’ex Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano quando li incontro alcuni anni fa.
Nostro nonno Italo, che morì a Jawischowitz all’inizio del 1944, sfiancato dal lavoro massacrante e finito a calci dai tedeschi, diceva a papà: “non devi tenere rancore, qualunque cosa succeda devi perdonare e lasciare stare altrimenti non potrai andare avanti nella vita, i ‘fantasmi’ di quello che è successo ti perseguiteranno!”
Un nostro cugino diceva: “devi odiare i tedeschi per quello che è successo”, ma papà rispondeva: “quante cose brutte ho visto, ma che possiamo fare? Sono cose da far sapere, non si può vivere sempre con questa cattiveria dentro!».