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16:36pm24 Febbraio 2023 | mise à jour le: 24 Febbraio 2023 à 16:46pmReading time: 6 minutes

Oltre gli ostacoli, con orgoglio e determinazione

Oltre gli ostacoli, con orgoglio e determinazione
Photo: Foto cortesiaGiulia Di Bartolo

Giornata internazionale della donna: intervista a Giulia Di Bartolo, capitano in pensione della Sûreté du Québec

 

In occasione della Giornata Internazionale della Donna, il Congresso Nazionale degli Italo-Canadesi, Regione Québec, organizza, per domenica 5 marzo alle ore 15, una conferenza dal titolo “Les Gardiennes de la Paix” che si terrà presso il Piccolo Teatro del Centro Lonardo da Vinci.

Protagoniste della conferenza quattro donne che hanno lavorato o lavorano ancora in vari corpi di polizia, con compiti diversi che vanno da quelli di “peacekeeping” all’investigazione o alla provenzione.

Tra di esse troviamo Giulia Di Bartolo, 33 anni in polizia, capitano in pensione dallo scorso gennaio della Sûreté du Québec. La prima donna, e la prima donna d’origine italiana, a raggiungere questo alto livello di comando del corpo di polizia provinciale.

 

Capitano Di Bartolo, ci può descrivere il suo percorso?

«Sono nata a Montréal e sono figlia di immigrati. Mia madre – afferma – è originaria di Cagnano Varano, in provincia di Foggia, e mio padre viene da Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro. A casa parlavamo italiano. Ho fatto le scuole anglofone e poi ho studiato Criminologia all’Università Carlton di Ottawa. In realtà volevo essere avvocata, poi mi sono accorta che il mio senso di giustizia sarebbe stato troppo “alto”. Sentivo che non sarei mai stata capace di difendere in corte un assassino così mi sono diretta anche su degli studi di carattere sociale frequentando un Master in “Social work” all’Università Sherbrooke. Nel frattempo avevo anche fatto domanda per entrare nella RCMP (Royal Canadian Mounted Police) e mi presero. Era il 1988. Ho fatto un training di 6 mesi a Regina e poi sono stata trasferita in British Columbia dove ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito.

Lui fu trasferito a Niagara Falls ed io, per seguirlo, feci domanda alla Niagara Regional Police dove fui accettata. Poi ancora un suo trasferimento nel Québec. Allora facemmo domanda alla Sûrété du Québec (S.d.Q.) dove fummo entrambi accettati nel 1991.

Ho iniziato come “patrol officer”, agente di pattuglia, ma il mio obiettivo era quello di diventare investigatore. Quindi ho intrapreso questa strada, ho superato gli esami e nel 1999 ho avuto la promozione».

 

Il fatto di essere donna, e in più d’origine italiana, ha creato ostacoli o problemi alla sua carriera?

«In seno alla S.d.Q. sì ma non negli altri posti dove ho lavorato perché – spiega la capitana in pensione – volevano avere più donne nei loro ranghi. Quando sono arrivata alla S.d.Q. mi sono trovata davanti a tre ostacoli: prima di tutto ero una donna; secondo ero d’origine italiana e terzo sono piccola di taglia. Risultato: nessuno voleva lavorare con me».

Giulia Di Bartolo, capitano in pensione della Sûrté du Québec

Come ha fatto a superare questi ostacoli?

«È stata molto dura. Avendo già lavorato in altri due corpi di polizia non mi aspettavo di essere respinta, di essere ostacolata in questo modo. Pensavo – spiega – che con la mia esperienza sarebbe stato tutto più facile. Invece è stato il contrario; trovavano tutte le scuse possibili per non lavorare con me: che ero troppo piccola, che ero una “mafiosa” come tutti gli italiani; che ero una donna e le donne non erano “adatte” a questo lavoro. Ma con il tempo gli uomini si sono accorti di cosa ero capace di fare. Ero capace di parlare alla gente e in più parlo quattro lingue: inglese, francese, italiano e spagnolo. Ero capace di lavorare anche da sola. Hanno visto che ero estremamente determinata a perseguire i miei obiettivi. Hanno visto che non mi mettevo a piangere davanti a loro; magari lo facevo poi a casa, in privato, perché la tensione era troppo forte, ma mai sul posto di lavoro. Non ho mai dimostrato debolezza mentale e piano piano, forse anche grazie alle nuove leve che entravano a far parte della S.d.Q., che avevano una mentalità un po’ più aperta, hanno iniziato a capire che ai fini del lavoro non c’era differenza tra un uomo e una donna.

Certo, spesso sentivo battute del tipo: “Ah voi italiani, siete tutti mafiosi!” Battute di gente “ignorante”, di gente senza capacità di giudizio, che non era capace di fare la differenza tra una persona onesta, in più una collega, e un vero mafioso».

 

Se dovesse fare un bilancio della sua carriera cosa direbbe?

«Ho fatto quello che volevo fare. La maggior parte della mia carriera nella S.a.Q. – afferma – è stata nel settore dell’investigazione, delle inchieste. Ho toccato molti aspetti diversi di questo mestiere e credo di aver aiutato molta gente. Ho finito la mia carriera come capitano, la prima donna capitano della S.a.Q., anche perché quando si trattava di fare una promozione venivano promossi sempre prima gli uomini che le donne. Dovevo lavorare due o tre volte di più degli altri per farmi conoscere e apprezzare altrimenti non mi vedevano nemmeno. Come capitano ho diretto delle squadre di investigatori, allora non male come donna e come figlia di immigrati! Sono molto orgogliosa di questo: volevo finire la mia carriera in bellezza e volevo far vedere che ero capace di fare le cose come i “québécois de souche!”».

 

Qual è stata la realizzazione di cui va più fiera?

«Quando sono diventata capitano perché come tale ho potuto cambiare le cose, perché potevo sedere al tavolo delle decisioni e soprattutto potevo prendere delle decisioni. Ad esempio ho creato delle nuove sezioni d’inchiesta partendo da zero. Gli uomini non volevano fare questo tipo di lavoro perché lo consideravano troppo “faticoso”. E poi sono andata a cercare giovani e donne per fare i “detective”. Per loro ero come una  “mentor”. Ho aperto la strada a molti di loro. Inoltre, parlando quattro lingue, spesso mi sceglievano per collaborare con altri corpi di polizia in occasione dei grandi avvenimenti tipo G7 o il “Sommet des Ameriques”».

 

Come ci si comporta davanti ad un criminale? Come si reagisce psicologicamente?  

«È molto duro ma dobbiamo essere mentalmente forti perché se non siamo forti come possiamo aiutare gli altri? Di morti ne ho visti diversi nella mia carriera, alcuni sono anche morti tra le mie braccia. Ma c’è una cosa che ti entra nella teste e che ti dice: adesso non devi essere troppo emotiva ma più operazionale, più fredda, più razionale. Quando ti succede per la prima volta è molto difficile, torni a casa e piangi perché hai vissuto una situazione molto intensa: qualcuno ha perso un figlio, un familiare. Ma bisogna andare avanti e formarsi una corazza per proteggersi».

 

Che consigli può dare alle giovani donne che vogliono intraprendere questa carriera?

«Posso dire – risponde Giulia Di Bartolo – che la nostra è una vocazione non un lavoro. Nel nostro ruolo possiamo fare tante belle cose per aiutare la popolazione. Bisogna essere forti mentalmente, avere una grande forza di carattere e non scoraggiarsi. Bisogna capire che la strada da percorrere oggi non è facile ma domani lo sarà».

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