Incontro con il regista Roberto Zorfini
f_intravaia
Nato a Roma 42 anni fa Roberto Zorfini, con un passato di operatore di ripresa alla Rai, è sbarcato a Montreal nel 2010 con la voglia di mettersi in gioco e di intraprendere una nuova sfida professionale.
«La cosa che mi interessava di più – spiega Roberto, incontrato presso l’Association des Réalisateur et Réalisatrices du Québec, – era quella di fare il regista. Mi sono diplomato nel 1995 all’Istituto per la Cinematografia e Televisione Roberto Rossellini di Roma, poi ho iniziato a lavorare per la Rai come operatore di ripresa. Però, ad un certo punto, mi sono accorto che non mi interessava più di tanto lavorare per la televisione, mi interessava invece cercare di realizzare dei progetti a più ampio raggio, che avessero una certa libertà artistica e creativa.
Da lì è nata l’idea di iniziare a guardare altrove e, per una serie di circostanze, grazie anche ad alcuni amici che mi hanno parlato del Canada, questo “altrove” si è trasformato in un permesso di vacanza-lavoro utile per poter esplorare la situazione a Montréal. Qui mi sono trovato subito bene, e dopo un mese ho ricevuto la prima offerta da qualcuno che aveva visto i miei lavori, girare uno spot pubblicitario per il Cafè Méliés, sul boul. St-Laurent, che però oggi non esiste più. Lo spot è piaciuto molto, il mio nome è comiciato a circolare nell’ambiente della produzione visiva e così ho ricevuto una seconda offerta da parte di qualcuno che doveva realizzare dei video corporativi e della pubblicità per una società. È stata proprio questa persona a portare avanti le pratiche relative al permesso di residenza che poi ho ottenuto due anni fa. In tal modo è iniziato il mio percorso nel mondo della produzione visiva locale e devo dire che dopo 7 anni sono molto contento di dove sono arrivato, avendo come obiettivo di andare molto più lontano».
Puoi spiegarmi più in dettaglio questo tuo percorso artistico?
«Mi piace molto fare le pubblicità perché sono dei progetti che si realizzano in tempi più rapidi rispetto, ad esempio, ad un documentario, però mi piacciono molto anche i cortometraggi e le fiction. Mi piace molto l’estetica, preparare bene un’inquadratura, curare ogni minimo dettaglio. Mi piace raccontare soprattutto le storie degli altri. Non sono interessato a scrivere e realizzare un mio progetto personale, ed in questo forse mi distacco un po’ dall’idea del regista classico europeo che si scrive e si sceneggia le sue opere. Mi piace guardare le cose attraverso l’obiettivo di una telecamera, delineare e raccontare delle storie mettendo dentro le inquadrature quello che più risponde al mio senso estetico».
Hai qualche punto di riferimento cinematografico?
«Ad 11 anni ho avuto un colpo di fulmine per Federico Fellini grazie ad un libro, che si trovava in casa, scritto dal regista stesso, e che si intitola “Federico Fellini, fare un film”. A 12 ho deciso che da grande avrei fatto il regista e a 16 ho realizzato il mio primo cortometraggio. Da quel momento, visto che il mio interesse per la scuola era praticamente nullo, non mi sono mai spostato dalla mia passione».
Su quali progetti stai lavorando in questo momento?
«Sono nella fase di post produzione di una docu-fiction sul mondo dei diritti degli Inuit girato nel Grande Nord. Posso definirlo come un “educational”. Sarà una specie di documento visivo che sarà utilizzato nei tribunali e che sarà inserito in un sito web. Ho girato diverse scene nel febbraio scorso con temperature … polari!»
Perché hanno scelto un “italiano” per un video del genere?
«Quando l’ho chiesto all’organismo che lo ha commissionato, mi hanno risposto dicendo che gli era piaciuto il mio stile, il mio modo di raccontare, perché avrei raccontato qualcosa di più simile ad un documentario ma con uno stile più da fiction, con più possibilità di cogliere certe sfumature del discorso.
A parte gli Inuit c’è il progetto “Mannagiamerica”. Si tratta dello spettacolo teatrale che Joe Cacchione e la sua banda di amici ha presentato tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016. Da questo spettacolo ne abbiamo tratto un cortometraggio di una decina di minuti, al quale partecipa anche l’attore Dino Tavarone, presentato in questi giorni a Toronto, Montréal e Vancouver nell’ambito del Festival del cinema italiano contemporaneo. Dello spettacolo abbiamo preso una scena particolare, quella della dogana (un immigrato italiano che arriva alla dogana canadese negli anni ’50), alla quale abbiamo aggiunto un pre e un post scena per darle un filo più logico. Abbiamo girato il corto alla Casa d’Italia. Lo presenteremo ad altri festival. Il nostro obiettivo è quello di trasformarlo in un vero e proprio film».
Altri progetti realizzati o da realizzare?
«Ho girato diverse pubblicità e ne ho in programma altre. Due anni fa, insieme al mio socio Alessandro Mercurio, abbiamo aperto una piccola casa di produzione, la “Absurd Production” (http://absurdeproduction.com). Uno dei nostri progetti è stato realizzare un lungometraggio documentario, presentato il 12 giugno scorso all’Istituto Italiano di Cultura”, su uno spettacolo teatrale di Luigi Pirandello, “Questa sera si recita a soggetto”, che Alessandro, in qualità di regista e docente presso il Dipartimento di teatro dell’Università Concordia, aveva montato con la sua classe nel 2014. Abbiamo seguito i lavori della classe dall’inizio fino allo spettacolo vero e proprio ma senza seguire un ordine cronologico, cercando di fare un omaggio al teatro visto con l’occhio del cinema.
Poi abbiamo terminato un altro cortometraggio dal titolo “Una coppa di latte appena munta”, che si ispira al film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Abbiamo intenzione di proporre questi cortometraggi ai vari festival che sono un po’ le vetrine per farti conoscere e per far conoscere il tuo modo di raccontare le storie. Per il resto inizio a fare avanti e indietro tra Montreal e Toronto dove il mercato della pubblicità è molto più “aperto”».
Il fatto di essere d’origine italiana è un vantaggio o uno svantaggio nel tuo lavoro?
«Il nostro stile, il nostro modo di presentarci e di raccontare le cose piace molto così come le nostre capacità di cavarcela anche in situazioni difficili. È la famosa arte di arrangiarsi. Siamo preceduti da un’eredità solida che però è anche un’eredità “antica” e, in quanto regista, sento la responsabilità di dover portare qualcosa di nuovo. Questa è la mia sfida!».