Arte e spettacolo
20:01pm12 Novembre 2013 | mise à jour le: 12 Novembre 2013 à 20:01pmReading time: 5 minutes

La classe di un cervello in fuga

Applausi e applausi alla prima canadese di Falstaff, per il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, all’Opéra di Montreal, sabato 9 novembre. Il direttore d’orchestra è Daniele Callegari, italiano doc. Il suo curriculum da enfant prodige, pieno di successi, spicca come il fazzoletto rosso che porta nel taschino della giacca nel gran finale di questa standing ovation. Ha diretto le maggiori orchestre del mondo, tra cui per sette anni la Filarmonica di Anversa, ora è direttore d’orchestra freelance di calibro internazionale.

Il Corriere Italiano lo ha incontrato alla vigilia della prima durante le prove.

Lui ti accoglie con il sorriso di un amico che ti sta aspettando, benché non ti conosca. Mentre la compagine orchestrale si è già diluita per la pausa pranzo, c’è ancora qualcuno che resta nella sala D dell’Opéra a provare il suo spartito. Un piacevole violoncello suona e due gentil donne degli archi si avvicinano e gli dicono: “Mais c’est la jeunesse! Une oeuvre extraordinaire”. “Sì – risponde in francese Direttor Callegari – è l’opera per eccellenza, bellissima. Anche se Verdi l’ha scritta in piena vecchiaia, sei anni dopo l’Otello, sembra un’opera giovanile”. Con il sottofondo dei fiati inizia l’intervista.

 

Maestro, cosa significa dirigere Verdi per il bicentenario della nascita in un contesto internazionale come quello dell’Opéra di Montreal?

«Mi fa molto piacere. Sono a Montreal per la prima volta, ma nel Nord America, per il bicentenario della nascita di Verdi, ho già diretto altre sue opere. A gennaio Il Trovatore, al Metropolitan di New York e in aprile l’Aida alla S.Diego Opera. Non vorrei cominciare con una polemica, ma bisogna dirlo: l’America mi ha chiamato, mentre nel mio paese non ho potuto omaggiare Giuseppe Verdi perché l’Italia mi ha snobbato».

 

Anche un direttore d’orchestra è un cervello in fuga?

 

«Sì, noi direttori siamo obbligati ad esserlo, perché in Italia ci sono problemi di programmazione. Questo perché mancano i soldi per la Cultura. I teatri organizzano la programmazione quasi all’ultimo momento, al contrario di quanto accade all’estero. Qui, a Montreal, mi hanno proposto di fare Falstaff 3 anni fa. Tra l’altro, i teatri italiani tardano a pagare e per noi diventa prioritario avere la certezza che vengano rispettati i patti contrattuali. Non voglio entrare in polemica, ripeto, ma per esempio sono tre anni che aspetto di essere pagato da un teatro italiano. Questo non fa buona pubblicità al nostro paese, perché poi tutti gli artisti evitano di venirci. In Italia, abbiamo comunque delle eccellenze di teatri, ma su 14 enti lirici-sinfonici, quelli che pagano regolarmente sono 4».

 

Mi può fare un esempio di eccellenza?

 

«Prima di venire qui, a settembre, ho diretto 5 recite della Sonnambula al Petruzzelli di Bari. Devo dire che con questa nuova gestione (del commissario straordinario Carlo Fuortes, ndr) il Petruzzelli è rinato. Mi auguro che questo teatro rimanga con questa gestione. Non avevo mai lavorato a Bari e ho avuto un’impressione straordinaria per la serietà delle persone che vi lavorano. A partire dall’orchestra. Magnifica. Disponibilità straordinaria. Coro ben preparato, masse tecniche, attrezzisti molto gentili, disponibili. Tutto, dalla portineria all’amministrazione. Una grande umanità. E credo che il merito vada a Fuortes che ha portato un cambio di mentalità. Noi, in Italia, abbiamo bisogno di un cambio di mentalità. È stato un successo. Una bellissima esperienza. Credo molto nel sud e amo la Puglia anche se sono nato per sbaglio a Milano e ho origini venete».

 

Come è iniziata la sua carriera?

 

«Ho iniziato a 14 anni al Conservatorio di Milano, dove mi sono diplomato in contrabbasso e percussioni. A 22 anni sono entrato a far parte dell’orchestra della Scala di Milano. Mi sono diplomato come direttore d’orchestra a 28 anni, quando mi sono anche sposato. Nel ’93, a 33 anni, ho debuttato al Teatro Massimo di Palermo con “Alice”, opera di Giampaolo Testoni, che poi è diventato un mio carissimo amico».

 

Qual è l’aspetto che caratterizza la sua italianità e quale la sua fama internazionale?

 

«La fierezza di essere italiano in entrambi i casi. Se c’è una cosa sulla quale non transigo è l’Opera, che sappiamo fare bene solo noi italiani. Chissà perché l’opera italiana può essere cantata anche da cantanti stranieri. Non accade però il contrario. Tipo, opera russa, cantanti solo russi. Opera tedesca, cantanti solo tedeschi. Opera italiana, tutti».

 

Il suo legame con Verdi e l’opera di Falstaff?

 

«Un amore viscerale. Sono cresciuto a pane e Verdi. È la mia vita. Ho già diretto 18 opere. E il mio sogno è di dirigerle tutte e 27. Quanto a Fastaff è il capolavoro che possa essere mai stato scritto nella storia della musica, perché è la somma della grande produzione verdiana. Nel Falstaff Verdi cita se stesso e scrive per puro piacere, senza la necessità di doverlo fare per un committente, sostenuto anche da un grande librettista come Arrigo Boito. La marcia vincente dell’opera è la teatralità. Mi piace il passaggio “Buono. Ber del vino dolce e sbottonarsi al sole”, perché alla fine a Falstaff basta un bel bicchiere di vino e una bella giornata. E, nella vita, bisognerebbe pensare così un po’ più spesso».

 

A parte Verdi, un altro sogno?

 

«Vorrei vedere il mio paese in ordine, perché quando sono fuori mi manca. Lo critico, ma non ne parlo male. Quando, durante la giornata, parli due, tre lingue contemporaneamente, hai voglia di sentir parlare italiano. E poi in Italia si mangia come in nessuna parte del pianeta. Stare nel proprio paese è tutta un’altra musica».

Chapeau, Monsieur Callegari.

 

 

 

Silvia Rizzello

 

 

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