Omaggio al giudice Antonio Discepola

19:35 10 Giugno 2014

In occasione del suo 10º anniversario, l’Associazione dei Giuristi Italocanadesi del Quebec ha reso omaggio ad uno dei suoi illustri membri, nonché presidente-fondatore, il giudice Antonio Dicepola.

L’evento, che si è svolto lo scorso 30 maggio presso la sala da ricevimento Le Rizz nell’arrondissement di Saint-Léonard, ha riunito oltre 200 persone che con la loro calorosa presenza hanno inteso renderegli un sentito omaggio. Oltre ai numerosi giudici e giuristi convenuti, erano presenti anche molte personalità politiche, istituzionali e comunitarie. Nel corso della serata, animata dall’Avvocatessa Anna Colarusso e dall’Avv. Dino Mazzone, in collaborazione con il presidente dell’associazione e procuratore-capo della Corte Municipale, Philippe Messina, diversi fra i partecipanti hanno preso la parola per sottolineare il gran lavoro svolto dal giudice Discepola, tra cui anche una delle sue figlie (e avvocato) Teodolinda.

Durante il suo discorso, Antonio Dicepola ha personalmente reso un commovente omaggio alla memoria dei propri genitori, che l’hanno guidato e aiutato nel corso della sua infanzia, e particolarmente negli studi, malgrado a quei tempi le risorse finanziarie per riuscirci fossero estremamente limitate.

Per chiudere la serata, l’Associazione, fondata nel 2004, ha consegnato tre Borse di studio da 1000$ l’una a degli studenti universitari in diritto di origine italiana: Kimberly Parisi, dell’Université de Montréal, Marcus Moore, dell’Université Mc Gill et Hugo Saint-Laurent, dell’Université de Laval. 

L’intervista: «Studiare per farsi rispettare»

Giudice Discepola, il “percorso” che lo ha portato dal suo paese Volturara Irpinia (in provincia di Avellino) a sedere sulla sedia di giudice della Corte Municipale di Montreal, un “percorso” molto simili a quello di migliaia di italiani che negli anni ’50 – ’60 lasciarono l’Italia in cerca di fortuna, non è stato certo facile. Ce lo può raccontare?

 

«La nostra prima meta in terra canadese non è stata Montreal ma Glenside, un piccolo villaggio sperduto nelle immense praterie del Saskatchewan dove siamo arrivati nell’ottobre del 1957, quando avevo intorno ai 5 anni, e dove c’era già una sorella di mio padre. Papà aveva trovato un lavoro come manovale per le ferrovie. La compagnia gli aveva fornito anche un “alloggio” – chiamiamolo così – in quanto si trattava di un vagone ferroviario, messo su quattro pilastri. Quella era casa nostra! C’era una stanza per dormire, una specie di sala da pranzo e, in un angolo, una stufa a legna per scaldarsi. Il bagno era addirittura fuori del vagone. Non c’era né acqua corrente, né elettricità, lì vicino c’era un pozzo dove andavamo a prendere l’acqua e per fare un po’ di luce avevamo una lampada ad olio. Poiché eravamo ad una trentina di metri dalla ferrovia, quando i treni passavano la nostra “casa” vibrava tutta, sembrava un terremoto!

Mi ricordo che il viaggio per arrivare qui fu interminabile. Dopo aver fatto 10 giorni di nave sbarcammo ad Halifax e da lì prendemmo il treno, altri 3-4 giorni, per Glenside.

Per mio padre Orazio e mia madre Teodolinda il viaggio fu un vero e proprio “trauma” perché non erano mai usciti da Volturara, non avevano mai preso un autobus, ancor meno una nave e parlavano solo il dialetto. Anche per me e mia sorella non fu facile. Cominciai a frequentare la prima elementare, parlavo agli altri bambini della classe ma non mi rispondevano. Allora, nella mia testa pensavo: “ma questi sono matti! Perché non mi rispondono?” Nessuno mi aveva spiegato che quando vai a scuola dall’altra parte del mondo, i bambini non parlano la tua stessa lingua!»

 

Perché avete lasciato Glenside?

«Perché non c’era più lavoro. L’abbiamo lasciata dopo un paio d’anni. Mio padre aveva dei fratelli a Montreal e così decisero di trasferirvisi. Ma non era un periodo facile; siamo intorno al 1959-60. Anche a Montreal non c’era molto lavoro e gli italiani, in genere, non erano ben visti e spesso discriminati. Per i canadesi eravamo della gente “strana”, non volevano affittarci case ed in più, i canadesi-francesi ci guardavano storto perché ci consideravano dei “ladri di lavoro”. Siamo usciti da questo circolo di discriminazione grazie all’istruzione, grazie al fatto che i nostri genitori ci hanno permesso di studiare, grazie al fatto che i nostri figli sono potuti andare a scuola. Questa è stata la chiave di volta che ha permesso alla nostra comunità di “emergere”. Per questo, quando sento le altre comunità che si lamentano per essere discriminate dico sempre loro: lamentatevi quanto volete ma c’è una sola soluzione a questo problema, mandare i ragazzi a scuola».

 

E allora parliamo d’istruzione; qual è stato il suo percorso?

«Quando sono arrivato a Montreal sono andato alla scuola Notre-Dame de la Defense e alla Saint-Philippe Benizi; poi ho frequentato la J.F. Kennedy High School. Nel 1974 mi sono laureato in Scienze politiche ed economia all’Università McGill (dove conobbe la sua futura sposa la signora Giovannina Colaianni dalla quale ha avuto tre figli: Teodolinda, Orazio-Federico e Diana). Poi mi sono iscritto alla Facoltà di legge, ho preso un’altra laurea e nel 1978 sono entrato a far parte del “Barreau du Quebec”. Dopo un paio di anni di pratica nel 1980, insieme ad Antonio Di Ciocco, allora sindaco di St-Léonard, e Michel Bissonnet, attuale sindaco di St-Léonard abbiamo aperto uno studio legale. L’anno dopo si è aggiunto anche Carmine Mercadante».

 

Come ha fatto a diventare giudice?

«Dopo 13 anni di pratica nello studio, 12 ore di lavoro al giorno, per 6 giorni alla settimana, mi sono detto che dovevo travare un’altra soluzione prima che i bambini si facessero grandi senza vedere il padre. Una delle possibilità era quella di diventare giudice perché come tale mi potevo concentrare interamente sul mio lavoro specifico senza dovermi occupare di altri problemi come succede quando hai uno studio privato. Così ho fatto, ho presentato domanda, ho superato il concorso e nel 1992 sono diventato il primo avvocato d’origine italiana ad essere nominato giudice della Corte municipale di Montreal dove presiedo dei processi in diritto civile e penale: dalle multe, alle tasse non pagate, dalle costruzioni abusive ai regolamenti comunali, dalla violenza coniugale ai reati legati alla droga o alla prostituzione».

 

Visto che il suo è un punto di vista privilegiato, come si comportano gli italiani di Montreal davanti alla legge?

 

«Quando la mattina ricevo la lista della cause da trattare guardo sempre se ci sono dei nomi d’origine italiana e nel mio cuore spero sempre di non trovarli. Oggi, con la “Commissione Charbonneau”, ne vediamo di tutti i colori. Ma quando analizzo il quadro dei crimini generali, chi commette più reati non sono certo le persone d’origine italiana».

 

Siamo ancora “discriminati”?

 

«Dobbiamo fare attenzione: quello che abbiamo subito noi negli anni ’60 è stato molto peggio di quello che vediamo oggi. Allora sì che c’era una vera discriminazione nei confronti degli italiani! Se confrontiamo quell’atmosfera lì con il clima di oggi, la “Commissione Charbonneau” non è niente, è un gran “bla bla bla” che tocca solo una minima parte della comunità. La differenza tra oggi e gli anni ’60 è che allora avevamo solo qualche dottore, pochissimi avvocati, niente giudici, eravamo molto più “deboli”. Oggi ci possono chiamare come vogliono ma noi italiani siamo dappertutto, in tutte le categorie professionali, occupiamo posizioni importanti nella società, abbiamo conquistato posti di prestigio con lo studio, il lavoro duro e la voglia di arrivare. Le umiliazioni che hanno subito i nostri genitori all’epoca ora non le subiamo più. Per questo non mi stancherò mai di ripetere che l’unica soluzione per migliorare le proprie condizioni è quella di fornirsi degli strumenti necessari per farlo e questi strumenti sono l’istruzione e lo studio».

Intervista di f_intravaia

 

 

 

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